Melania Mazzucco al Festival della Bellezza di Verona

Melania Mazzucco, scrittrice, letterata e saggista è stata ospite lo scorso giugno al Giardino Giusti di Verona per la VI edizione del Festival della Bellezza. L’arte è come sempre protagonista di riflessioni intorno alla Bellezza. Dopo Vittorio Sgarbi, che in prima nazionale ha portato in scena il suo spettacolo su Raffaello, Melania Mazzucco ha analizzato l’immagine della metafisica da Beato Angelico a Paul Klee. 

Desidero condividere quattro brevi, significativi passaggi dell’intervento di Melania Mazzucco che ha presentato: “Da Beato Angelico a Klee l’immagine dell’invisibile”.

 

[…] Vi dicevo che nei primi due secoli non si poteva rappresentare Dio, non si poteva rappresentare neanche Gesù in realtà e quindi ci si limitava all’uso dei simboli che poi sono diventati anche comuni: il pesce, la mandorla, l’aureola luminosa, la colonna e il fuoco a volte. Nel filone mistico sarebbe sopravvissuta questa forma di astrazione assoluta per la rappresentazione dell’invisibile. Nella storia della nostra arte è un filone che in realtà sarà un po’ sotterraneo e si inabissa e riemerge solo nel XX secolo. Mi piaceva qui farvi vedere questa immagine che viene da Ildegarda di Bingen la grande mistica benedettina, la grande naturalista, dottora della chiesa, come è stata proclamata recentemente. La grande visionaria, perché a illustrazione delle sue visioni ci sono manoscritti e nelle miniature dell’epoca delle bellissime immagini tutte diverse e difformi da quella che sarebbe diventata l’iconografia vincente della storia sacra. E questa è un’originalissima immagine della trinità. Noi a immagine della trinità saremmo abituati a vedere Dio padre, Cristo e la colomba dello Spirito santo, ma invece nel filone astratto e mistico la Trinità veniva rappresentata attraverso la colonna. Ecco queste erano le colonne di Ildegarda. Tutto questo tipo di opere d’arte noi non ce le abbiamo negli occhi perché per lo più sono nei manoscritti e nelle miniature, che naturalmente nessuno di noi vede se non distrattamente qualche volta quando vengono mostrate in qualche museo, perché accompagnano qualcos’altro. Era l’arte sacra per eccellenza destinata agli occhi di persone che si erano consacrate alla religione e lì è rimasta la riflessione mistica, filosofica sull’essenza del divino. Mentre per noi profani è nata l’altra arte è nata l’arte nella quale potevamo identificarci, con la passione di Gesù, con le storie di Gesù e con un Dio che potessimo vedere. Al quale avevamo smesso di somigliare perché dal XIII secolo in poi Dio padre e Dio figlio si separano in qualche modo e incomincia quello che poi si vedeva nell’affresco di San Pietro in valle. Non ci sarebbe stato più, non è più possibile vedere un Dio padre che crea se stesso, quella sarà l’immagine del Cristo e Dio padre diventa il Padre, Dio invisibile diventa il padre. Quindi sia la storia di Ildegarda e dei mistici, sia il filone romanico del Dio giovane si sarebbero perduti. Noi saremmo andati in una direzione diversa. Però questo mi piace mostrarlo adesso perché è lì che andrò a tornare quando l’arte del XX secolo andrà a cercare l’invisibile attraverso l’astrazione.

[…] È come se il Beato Angelico dicesse “questo è il punto della meditazione”. Maria fa ombra, l’angelo no, l’angelo del Signore porta la voce di Dio è la materializzazione dell’invisibile però non fa ombra, fa luce, trasmette luce. Maria fa ombra, quindi Maria ha un corpo. Le ombre sono una delle passioni dei pittori. Ci sono artisti, come Leonardo, che si sono dedicati a studiare le ombre. Leonardo voleva scrivere un trattato sulle ombre. Sono stati scritti tantissimi libri molto belli sulle ombre. Quello che va detto qui è che questa è un’ombra di un corpo. L’ombra portata è qualcosa che si frappone. L’ombra nasce quando qualcosa si frappone fra la sorgente, davanti la sorgente di luce. Quindi il Beato Angelico ci dice che Maria ha un corpo e che è esattamente nel corpo di Maria che si sta per incarnare Dio. 

 

[…] Questo quadro rappresenta forse una delle crocefissioni più impressionati del XX secolo. Nel momento in cui Corinth lo rappresenta, questo quadro è del 1922, Corinth ha ancora negli occhi l’orrore della Prima Guerra Mondiale, delle trincee, della morte per gas, della morte brutta, della morte assurda e come si può rappresentare l’orrore se non ritornando all’immagine della crocefissione del Cristo che prende su di sé il dolore degli uomini. In realtà a questa data, cioè nel 1922, la storia della rappresentazione del cristianesimo attraverso l’arte è già finita in qualche modo, non c’è quasi più un’arte sacra, però le crocefissioni restano. Basti pensare, mi viene in mente adesso di non aver inserito l’immagine, agli studi per una crocefissione di Bacon che probabilmente qualcuno di voi avrà visto. Bacon fa esattamente, benché in modo completamente diverso da Corinth, la stessa riflessione. Sono gli anni della Seconda Guerra Mondiale, questa volta. Sta per cominciare l’apocalisse, all’inizio del ’40, che travolgerà l’Europa e Bacon che viene da tutt’altra tradizione e tutt’altri interessi e la cui pittura andrà da tutt’altra parte, comincia però a lavorare a degli studi per la crocefissione rappresentando queste figure mostruose, deformi e la crocefissione come l’immagine del male. 

[…] Ciò che noi vediamo, Klee ne deve mostrare la radice, cioè il significato, l’invisibile. Lui odiava e detestava, come la maggior parte dei pittori astratti, che qualcuno guardando i suoi quadri cercasse di riconoscerne dei segni, delle forme che somigliavano alle forme del mondo. Il quadro doveva produrre emozione o pensiero, farlo attraverso le forme, in particolare farlo attraverso i punti, le linee e i colori. Ma non perché noi dovessimo riconoscervi qualche cosa, naturalmente invece noi vi riconosciamo qualche cosa perché le forme e i colori non sono neutri. Così come siamo abituati da secoli a vedere nella mandorla un simbolo dell’apparizione di Dio, così nel cerchio arancione noi vediamo inevitabilmente il sole, così come nella figura geometrica al centro dell’immagine noi vediamo una porta e così come noi vediamo nelle due linee convergenti una montagna, una piramide, sicuramente un sentimento di salita e Klee ha costruito apposta i tre cunei contrapposti che vanno in direzioni diverse, ma ha anche voluto al centro dell’immagine il quadratino. Meglio, non è il centro dell’immagine, ma è il luogo in cui cade la nostra attenzione, una specie di quadrato azzurro che ti invita (l’azzurro Kandinskij ci insegnava che è profondità). Quindi ci invitava ad entrare dentro questa specie di montagna sacra. Il quadro infatti si chiama Ad Parnassum e questa è forse la montagna sacra alle muse. La tradizione visiva del Parnaso, per un artista colto come Klee, era ricchissima di immagini e questa sarà stata sicuramente la sua versione. Quello che Klee voleva in particolare con quest’opera, ma in generale con tutta la sua pittura, era di riuscire a creare una pittura che sapesse essere astratta come la musica, che fosse capace appunto di evocare un pensiero, non di dirlo o di descriverlo. E tra l’altro in realtà noi lo conosciamo anche come grande pittore degli scarabocchi infantili. Così lo accusano di fare quei pupazzetti che sembrano… oggi si dice che sembra ET, che ha dipinto ET. Ecco però mi piaceva l’idea di finire questo viaggio con una ricerca dell’assoluto di Klee, un’opera che è stata realizzata in anni tremendi per la nostra Europa nella quale nessuna rappresentazione, nemmeno del Cristo Rosso di Corinth Lovis, poteva rappresentare quello che stava per accadere alla nostra Europa. E qui siamo nel ’33, siamo alla vigilia della grande distruzione, del nostro grande suicidio anche culturale. Mi piaceva soltanto far vedere due cose successive, visto che avevo promesso di finire con Klee, però la ricerca dell’assoluto e la rappresentazione dell’invisibile non è finita ovviamente con Klee e neanche necessariamente con la pittura astratta o la pittura concettuale. Ci sono stati in particolare due artisti che forse hanno lasciato il segno più profondo recentemente. Uno dei quali è Mark Rothko e questa è una delle sue prime opere nelle quali anche lui comincia a trovare, così come nel Mondrian di prima, la sua vera identità. Mi piace ricordare che Rothko era un migrante, un profugo venuto dalla Lettonia, arrivato in America a 12 anni o 10 anni e che per molto tempo anche lui si dedicò al figurativo influenzato dagli artisti degli anni ’30, di rappresentare un’arte sociale, anche politicamente impegnata. Quindi ha rappresentato le periferie urbane, le metropolitane, insomma aderendo un po’ a quello che era poi il sentire di quel momento storico. Poi è passato ad una specie di surrealismo e alla fine è arrivato all’idea, anche lui alla Mondrian, di togliere tutto se non il colore. E poi alla fine togliere persino il colore, perché gli ultimi Rothko sono neri, e di lasciare muovere il quadro costruendo sempre per bande orizzontali di colore, ma per esempio in questo caso con queste strisce bianche e questa specie di riga nera che sembra quasi come quando una volta spegnavamo la televisione e c’era il risucchio dell’immagine dentro lo schermo. I quadri di Rothko sembrano muoversi, il colore pulsa e si devono guardare un po’ come delle pareti, no? Sono quadri anche di dimensioni enormi. Sono quadri che vogliono contemplazione, quindi è un po’ la stessa direzione delle grandi miniature. Però penso anche a quello delle colonne di Ildegarda Bingen che avete visto prima. Lei costruiva per strisce verticali e Rothko per strisce orizzontali, però è come se qui la rappresentazione dell’assoluto si facesse attraverso il niente, è soltanto la forma del colore, la purezza assoluta, non c’è più nulla, non si vede neanche la pennellata.

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Sono imprenditore nel settore metalmeccanico per la ristorazione professionale e da oltre trent’anni seguo l’omonima azienda di famiglia, riferimento industriale del Made in Italy dal 1952. Leggi tutto

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